Arnaldo da Brescia
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 175, p. 3
Data: 24 luglio 1955
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Anche nell'amministrazione dei centenari avvengono ingiustizie e dimenticanze. Nessuno, che io sappia, s'è ricordato che in quest'anno ricorre l'ottocentesimo anniversario dell'impiccagione e del bruciamento di Arnaldo da Brescia. Capisco bene che il clima dei giorni d'oggi non può essere benigno a un eretico e ribelle — in apparenza — come Arnaldo. Ma il suo processo sommario, dopo otto secoli, andrebbe riveduto e rifatto.
Son notissimi — ma a quanti? — i capi d'accusa: aver seguito il razionalismo teologico di Abelardo; aver censurato le ricchezze ecclesiastiche in nome dell'ideale della povertà evangelica; aver aiutato la Repubblica romana che voleva essere indipendente dalla autorità politica del Papa.
Orribili peccati, certo, agli occhi di un conformista fanatico del secolo XII. Vediamo, però, quel che accadde nei secoli seguenti. La teologia accetta e invoca sempre più l'ausilio della ragione filosofica, tant'è vero che nei tempi moderni il puro fideismo o irrazionalismo sono considerati erronei o sospetti dalla dottrina ortodossa della Chiesa. Nel secolo XIII l'idea della povertà evangelica ispirò e suscitò il movimento francescano che fu approvato e protetto dai Papi. Dal tempo di Dante al secolo XIX molti grandi cattolici condannarono, con ottime ragioni, il potere temporale dei Papi, i quali, alla fine, si sono contentati di un dominio poco più che simbolico.
Le scandalose colpe di Arnaldo da Brescia furono dunque cassate, o almeno attenuate, dalle autorità religiose dei tempi che seguirono. La vera e maggior colpa di Arnaldo fu quella di essere arrivato troppo presto sulla scena del mondo. Ma soprattutto l'essersi trovato in mezzo al groviglio delle vicende politiche di Roma tra gli anni 1152 e 1155 fu la causa occasionale e immediata della sua rovina. Federico Barbarossa imperatore, che in quel momento era accampato sotto Roma ed era l'avversario di Adriano IV, teneva però ad ammansire il Papa con la speranza di essere da lui incoronato. Pensò di fargli cosa grata offrendogli in dono la vita del pericoloso animatore della Repubblica romana. I soldati del Barbarossa riuscirono a impadronirsi dell'inerme Arnaldo e l'imperatore, lieto di poter fare bella figura a spese del sangue altrui, fece consegnare l'infelice predicatore a Pietro, prefetto di Roma, il quale, conoscendo l'animo del Pontefice, diede ordine che il nemico del suo padrone fosse impiccato e, non contento, che il corpo fosse bruciato e le ceneri disperse nel vento.
La più profonda lezione che possiamo ritrarre da questa lamentevole e tragica storia è questa: in tutte le Chiese, e specialmente nella nostra, i precursori e gli anticipatori di dottrine nuove o risuscitate corrono sempre tremendi pericoli che vanno dalla scomunica al rogo. Il meno che possa lor capitare è di essere fraintesi e vilipesi da qualche furente ma non veggente avvocato della lettera il quale ignora, come nel caso di Arnaldo, che il tempo, quasi sempre galantuomo, fa spesso accettare le anticipazioni di coloro che arrivarono e videro troppo presto.
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